I casi di violenze perpetrate ai danni delle donne sono frequentemente oggetto di notizie di cronaca, sui quotidiani e nei TG. Non si tratta soltanto di aggressioni fisiche, ma anche di maltrattamenti che ledono psicologicamente la vittima, impossibilitata a condurre la propria vita in modo libero e non condizionato da minacce.
Con la sentenza n. 1268 del 13 gennaio scorso, la Corte di Cassazione – Sezione VI si è pronunciata su un caso di violenze familiari, commesse da un marito imprenditore che – per la volontà di controllare la consorte – le aveva di fatto impedito di trovare, e svolgere, un’occupazione. In particolare l’uomo le voleva che la moglie accudisse solo i figli, salvo poi, come emerso dai fatti di causa, utilizzare la moglie come contabile nell’azienda di famiglia per un lungo periodo senza versarle nemmeno lo stipendio.
Quando la donna, nonostante i divieti e le imposizioni del coniuge, riuscì a trovare un’occupazione in ambito turistico, il rapporto lavorativo terminò in breve tempo a causa delle continue telefonate dell’oppressivo marito. Queste ultime erano mirate esclusivamente a farla ritornare al tetto coniugale nel più breve tempo possibile ed erano tali da rendere la donna vittima di situazioni umilianti agli occhi dei colleghi di lavoro.
La delicata vicenda si è trascinata fra il 2000 e il 2019 ed è stata raccontata nel dettaglio dalla donna, nell’ambito di una testimonianza innanzi al tribunale nel processo di primo grado.
Per l’uomo, l’esito finale è stato quindi la condanna per il reato di maltrattamenti
Anche in considerazione dei principi indicati dalla direttiva 2012/29/UE in tema di violenza di genere, ben si comprende allora perché la rigorosa e discriminatoria suddivisione dei ruoli all’interno dell’ambiente domestico – insieme alle forme di manipolazione e di pressione psicologica – siano costate all’uomo la condanna penale.